lunedì 23 marzo 2009

Canal di Cuna: amore a prima vista!



Sono le calamità naturali che ci consentono di leggere la storia della terra e la storia dell’umanità. Alluvioni catastrofiche o spaventosi terremoti hanno fermato delle istantanee che ora ci permettono di ricostruire la storia di tempi anche molto remoti. Così nella notte dei tempi per i dinosauri, così in tempi relativamente recenti, a Pompei per la storia della civiltà romana.
Alle volte i collegamenti del pensiero sono bizzarri e fuori luogo, ma è questo in effetti che m’è venuto in mente, arrivando a S.Vincenzo in Canal di Cuna. La prima impressione è che lì, per qualche motivo improvviso, d’un tratto il tempo si sia fermato. Come a Pompei basta avere la pazienza di pulire dalla lava, dalle ceneri, i resti dei monumenti, e ritrovi i calchi della vita d’un tempo. La lava in questo caso non è quella d’un vulcano, ma è quella del progresso, o di ciò che noi siamo abituati a chiamare con questo nome. Sulla terra s’è abbattuta all’improvviso un onda lunga e tante cose sonno rimaste sommerse.
D’un tratto negli anni cinquanta la civiltà ha cominciato a correre con ritmi prima mai visti. Il Canale di Cuna non ha saputo tenere il passo. Nella marcia dello sviluppo ha cominciato prima a restare indietro, a perdere i contatti, e infine si è fermata, lasciando che le ceneri del tempo la ricoprissero. La natura che, chissà quanti secoli prima, aveva dovuto arretrare per lasciare posto all’uomo, ed alle coltivazioni necessarie per la sua sopravvivenza, di anno in anno si è ripresa come una colata di lava inarrestabile, tutto il territorio. Il bosco che aveva dovuto arretrare per lasciare posto ai prati per l’allevamento del bestiame, lentamente si è ripreso gli spazi fino a ridosso dei casolari. Le edere e gli arbusti sono entrati fin dentro a quelle che erano state le dimore degli uomini e le stanno scardinando, smovendo, sbriciolando. Ne faranno un cumulo di macerie per poi ricoprirlo di vegetazione, e nessuno ricorderà più che in Val di cuna ha vissuto l’uomo.
Fra qualche anno, fra qualche secolo… Ma ora chi scende in Val di Cuna, se appena è capace di togliersi la polvere lasciata dal vulcano del progresso, riesce ancora a vedere l’uomo, la vita. Attraverso le immagini e soprattutto le sensazioni e le suggestioni che suscita il luogo, si riesce ancora a ricostruire l’immagine di come si viveva sulle montagne del Friuli fino ad un secolo fa. Già sulla mulattiera che scende da Forchia Zuviel, la strada che collegava la valle a Tramonti, nei muri a secco che sostengono la massicciata, nelle pietre lucide sulle quali corri il rischio di scivolare, ritrovi le persone che per secoli con pazienza e perizia hanno curato la manutenzione della loro strada, ritrovi il continuo andirivieni della gente che usciva a rientrava nella valle per recarsi al paese.
E sul passo Zuviel, (lo stesso etimo di Zovello in Carnia), il piccolo Zòuf, il piccolo gioco o passo che dir si voglia, affaticato dall’erta che sale dal Plan… il respiro s’era aperto e confuso nel respiro della valle che s’era distesa improvvisamente sotto i tuoi occhi. La valle amata la valle della sicurezza e della serenità perché la valle delle radici che s’apriva agli occhi dei suoi abitanti come l’oasi della tranquillità ogni volta che rientravano da Tramonti.
Quando infine dopo un rincorrersi di tornanti che sembra non dover mai finire, arrivi al ponte sul rio Quel (Colle) della Barca, che subito dopo s’immette nel Rio Comugna che segna ed accompagna tutta la valle, trovi le prime testimonianze dell’uomo a Piè di Questa in una edicola dedicata a___. Era certo tradizione che ci si segnasse passandole davanti quando si partiva dalla valle, come a garantirsi la protezione della valle, quando le si era lontani. Era tradizione ci si segnasse rientrando a ringraziare d’essere tornati “sani e salvi”.
E mentre pensi a quei segni di croce, guardi alla carta per fare il punto e ti ritrovi la stranezza, in fondo a quella valle lontana da qualsiasi fiume, d’un rio che scende dal Colle della Barca. Seguendo lo sviluppo dei sentieri sulla carta, scopri che da lassù s’andava a Preone nella valle del Tagliamento. Il riferimento è quindi al fiume nell’altra valle che s’attraversava con la barca o su un ponte di barche per raggiungere Enemonzo. Il riferimento è a una barca distante almeno cinque ore di cammino, e ti rendi subito conto della prima caratteristica della vita in valle: la dimensione delle distanze. Due ore e mezzo per andare a Tramonti, due ore e mezzo dalla parte opposta per andare a S.Francesco, oppure cinque ore per Preone. Ore d’un camminare faticoso prima per salire i bordi alti della valle, come i bordi d’una barca o d’una culla (da qui forse il nome?), per poi ridiscendere i ripidi versanti opposti.
“Più di due ore di cammino per incontrare qualcuno fuori dalla valle! Fuori dal mondo!...”, rifletti tra te e te, poi trovi Fausto che ti racconta che quella distanza lui la copriva ogni giorno per andare a scuola. Te lo dice come fosse la cosa più naturale del mondo. Anzi, vuol ridimensionare la cosa: “Le carte segnano due ore e mezzo, ma in effetti noi percorrevamo la distanza in meno di due ore.
Te l’immagini ora un ragazzo che fa due ore di strada a piedi per andare a scuola? Ma tante cose della civiltà del Canal di Cuna che poi era la civiltà contadina di tutta la montagna friulana d’un secolo fa, si fa fatica ad immaginare. Devi pensarci con calma, rimuovendo un po’ alla volta la cenere della dimenticanza depositata dallo sviluppo economico di questi ultimi decenni.

La Chiesetta di S.Vincenzo.
Il primo incontro è con la Chiesa. Ti appare tra gli alberi, minuscola come una cappella di campagna. Sovrastata da un campanile sproporzionato quasi a sottolineare e rimarcare l’importanza della funzione della campana per richiamare tutti gli abitanti dei casolari sparsi nella valle isolata.
A memoria d’uomo c’era una sorta di impalcatura di legno a sostenere la campana, poi nel 1927 venne costruito il campanile come è ora restaurato
Mi si dice che gli ultimi abitanti hanno abbandonato la valle nel 1952 ma dieci anni dopo le campane erano ancora al loro posto. Alla prima campana se n’erano aggiunte altre due, come in tutti i campanili che si rispettino. La loro voce sostituiva quella degli uomini e con loro la valle in qualche modo viveva ancora.
Poi qualcuno ha pensato bene di farle sparire. Forse a fin di bene, ad evitare che altri le rubassero. Ma ora che la chiesa è stata sistemata, le campane non sono tornate...Ce n’è una sola, ma è nuova! Mentre scendevo attraverso la mulattiera m’aveva raggiunto il suo suono, ed avevo pensato che era strano, che era fuori luogo.
Ora avevo la spiegazione: non era la campana di Canal di cuna, era una campana che non aveva mai chiamato la gente. Era falsa come la chiesetta. Era il risultato del pietoso tentativo degli uomini di opporsi alla storia. Tentativo commovente, tentativo importante da apprezzare e lodare. Purchè non diventi come una tomba costruita per onorare i morti dei quali si dimentica la vita e gli insegnamenti. Una sorta di alibi per liberarsi la coscienza del peccato della dimenticanza.
“No, anzi, l’abbiamo ricostruita perchè vogliamo ricordare! Deve essere come una lapide che fa ricordare, che fa pensare. La lapide della storia della val di Cuna”.
Ma prima che essere una lapide ricordo la piccola chiesetta ha una importante storia sua.
Nel 1850 la residenzialità in valle dovette raggiungere il massimo dello sviluppo sia demografico (15 nuclei familiari per oltre cento abitanti) che economico e sociale. Lo dimostra l’accordo raggiunto con don Leonardo Bidoli capellano-curato della Chiesa di S.Antonio Abate di Tramonti di Mezzo, con il quale il religioso si impegna a dare conforto spirituale agli abitanti della valle anche nel periodo invernale ed a celebrare dodici messe all’anno nella chiesa di S.Vincenzo. Come contropartita economica gli viene riconosciuta una sorta di tassa di 50 centesimi per ogni persona residente, 2 lire per ogni messa e due capretti.
Risolto il problema dell’officiante si pensò anche ad abbellire la chiesa. L’altare che era di legno venne sostituito con uno in marmo e alcuni anni dopo nel 1880 Luigi Schiasatti venne chiamato a dipingere una pala che raffigurava S.Vincenzo Ferreri.
A quando risale la costruzione della chiesa? E come mai intitolata a San Vincenzo Ferreri? Si risponde dicendo che è il santo venerato a difesa dei terremoti. Non risulta che il santo abbia particolari proprietà taumaturgiche contro il terremoto. Perchè se così fosse, il Friuli storicamente terra di terremoti dovrebbe essere tappezzato di chiese intitolate a S.Vincenzo. E invece ce n’è molto poche. Per questo è così strano trovarne una proprio in questa valle sperduta tra le montagne dove, come appunto a Tramonti di mezzo, ti aspetti di trovare piuttosto un S.Antonio Abate.
A meno che il frate non abbia a che vedere con la storia del posto.
Vincenzo Ferreri è nato a Valencia in Spagna nel 1350 e morto in Bretagna nel 1419. Frate domenicano è vissuto alla corte papale avignonese come confessore del papa. Ha abbandonato poi la curia pontificia per intraprendere la missione di predicatore itinerante nelle valli alpine in Spagna ed in Francia, aggregando un movimento di falgellanti e predicando come prossima la fine del mondo.
Parlando dei primi abitanti del Canale di Cuna si dice che furono probabilmente “alpigiani fuggiaschi, militi, avanzi di disfatte o cacciati dal delitto” . Ma non ci sono testimonianze ne su quando ne su chi per primo abitò la valle. E allora perchè non pensare che fin quassù si sia ritirato S.Vincenzo mentre girava a predicare “per le valli alpine”, tra il settembre del 1404 e l’agosto del 1406 quando i suoi biografi ne perdono le tracce? Pensare proprio al santo forse è esagerato, ma che si sia ritirato fin quassù qualcuno dei suoi seguaci frati flagellanti, non si può escludere. Quale posto migliore per chi voleva ritirarsi a fare penitenza nella convinzione che fosse imminente la fine del mondo, come predicava S.Vincenzo?
Il fatto che a poca distanza dalla chiesetta ci sia un casolare del Frari (del Frate) potrebbe costituire una implicita conferma della teoria.
O forse la scelta di intitolare la Chiesa a S.Vincenzo è stata fatta da uno che conosceva bene la storia del santo. E’ il santo infatti che più di ogni altro è stato capace di fare miracoli, al punto che un suo biografo dice che “era un miracolo se non faceva ogni momento un miracolo”. Si legge che abbia resuscitato almeno 50 persone, ma soprattutto che sia stato capace di dominare gli elementi atmosferici, facendo piovere o venire il bel tempo secondo le necessità di quelli che richiedevano il suo aiuto.
Vivendo in montagna a quei tempi poteva capitare spesso di “non savè a qual sant vodàsi”, di non sapere a qual santo votarsi. Per vivere in Val di Cuna ci voleva veramente l’aiuto di un santo dai poteri speciali come S.Vincenzo!
Sulla grande storia ci sono sempre racconti dettagliati, ricostruzioni fatte da grandi storici. Sulla piccola storia dei piccoli uomini, si possono solo costruire delle teorie. Non ci sono libri, ci sono solo, quando va bene, delle pagine sparse. Brandelli d’una storia difficile da ricomporre.
Per questo nella chiesetta ricostruita perchè possa testimoniare come una lapide la presenza dell’uomo nella valle, anche quando il tempo avrà inghiottito le ultime case, il bosco avrà sepolto anche gli ultimi sassi squadrati dalla fatica dell’uomo, accanto alle firme ed alle espressioni di stupore e di meraviglia di chi ha avuto modo di venire a visitare questo ultimo sperduto angolo di mondo, qualcuno ha voluto raccogliere gli “stralci di storia e ricordi”, le testimonianze degli ultimi abitanti della valle”.
La storia che vi si può leggere parte alla rovescio, parte dalla ricostruzione della Chiesa. Giustamente, prima di leggere ciò che c’è scritto nella lapide, si deve sapere perchè e da chi la lapide è stata voluta.
Nella chiesetta spoglia e disadorna colpisce sulla parete a sinistra un piccolo mosaico, opera del prof Carlo Fontanella di Meduno. E tra le testimonianze colpisce allo stesso modo quella che rilascia il professore chiamato a comporre il mosaico e che non riesce più a scrollarsi di dosso la suggestione provata sentendosi avvolto in val di cuna da una “atmosfera che aveva qualcosa di magico”, come è ha qualcosa di magico l’idea degli eredi della val di cuna che si ostinano a voler risalire il fiume per riscoprire tra gli ultimi ruderi le proprie radici.